La detenzione di Zaky e i continui appelli per la scarcerazione che sistematicamente vengono rifiutati mi ricordano i concorsi a cui partecipavo da bambina, quelli dei cioccolatini, solo che a me capitava sempre il bigliettino “ritenta sarai più fortunato”. Nasce da qui la vignetta ispirata alla celebre frase di Forrest Gump “mamma diceva sempre: la vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita!” Adesso però facciamo i seri: da 300 giorni Patrick Zaky è rinchiuso in una cella affollata, senza letto né materasso e costretto a dormire per terra in un carcere egiziano. L’accusa è aver diffuso informazioni via social contro lo Stato. La carcerazione viene reiterata durante le udienze che si tengono ogni 45 giorni e nelle quali Patrick Zaky, 29 anni, egiziano di Mansoura e cristiano copto, specializzando all’Università di Bologna, ripete invano: «Sono uno studente, voglio tornare a studiare in Italia, non ho fatto nulla di quello di cui mi accusate» e chiede al giudice di verificare l’autenticità dei post di Facebook sulla base dei quali è accusato di propaganda sovversiva, secondo la legge antiterrorismo locale. Sotto il regime di Al-Sisi basta poco per finire agli arresti e Zaky, fermato all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio scorso mentre rientrava nel suo Paese per una breve visita ai genitori e alla sorella, è stato destinato al carcere «Tora», detto anche «Tomba» perché molti detenuti escono morti, per lo stato di privazione o per le violenze subite.
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